Tre film. Kaurismäki, Hamaguchi, Wenders

"Foglie al vento" di Aki Kaurismäki, "Il gioco del destino e
della fantasia" di Ryūsuke Hamaguchi, "Perfect Days" di Wim Wenders.
Ho visto questi tre film nello spazio di alcuni giorni. Sono storie molto diverse,
mi piace però raccoglierle in un unico pensiero perché in qualche modo
risuonano tra loro.
Hanno tutte una solitudine resistente. Non una solitudine triste o disperata,
ma una solitudine intima calda e tenace, uno spazio per la bellezza.
Guardando questi film, sembra di camminare alla sommità di parole e gesti essenziali,
disegnati sul mondo come l'andare dei corpi nel Tai Chi. Oppure disegnati a
matita su pagine bianche di una carta porosa, un po' spessa dove la grafite
lascia segni netti che si allargano un po' nel tocco.
Tutti raccontano la straordinarietà nelle cose minime. Una
straordinarietà che attraversa ogni frammento, compresi dolore, fatica e
tristezza. È, appunto, la grandezza negli spazi piccoli, ordinari e ordinati; la
capacità di sognare nel deserto, di non rinunciare e di vibrare mentre tutto
intorno sembra perduto.
Ho sempre pensato che a smettere di sognare desiderare sperare, si smette di
vivere. Questi tre film sembrano dire che è possibile sognare desiderare
sperare nell'intimità dell'istante che, essendo tale, è anche presente, reale;
e le miriadi di istanti, uno avanti all'altro, contengono tutto, compresi il
prima e il dopo.
Brevemente, in ordine di visione.
Aki Kaurismäki. "Foglie al vento" è il suo ultimo film, e
come in tutti i suoi film il regista racconta l'intimità degli incontri e lo
sfondo della moltitudine. Le sue sono storie d'amore o del tentativo di amare;
ma prima ancora sono prove di contatto, di condivisione mentre intorno il mondo
crea distanze sempre più grandi.
I protagonisti dei suoi film non cercano nulla, almeno all'inizio. Si muovono
su uno sfondo minimo, spesso squallido, sono affaticati da ritmi uguali, da
lavori precari e ripetitivi, dove nulla è certo tranne la mancanza di
orizzonti.
Raccontate così, sembrano storie davvero tristi. Ma prima ho
detto che non c'è tristezza in questi film. Ed è vero. La capacità magnifica di
questo regista è lasciare che i personaggi vengano più o meno sfiorati dal
caso; da contingenze a volte belle, a volte meno. Ma sono questi accidenti
(esattamente quelli della vita) a portare lo sguardo un po' oltre, ad aprire
finestre, porte, paesaggi. Lo sfondo è la città, ma qui come altrove il
registra non mostra il brulicare scintillante ed efficiente delle metropoli
scandinave; di Helsinki vediamo sempre zone di confine, quartieri periferici,
umbratili, accesi da colori eccessivi, luci eccessive, silenzi irreali.
Ansa e Hoppala si incontrano per caso una notte a Helsinki. Lei fa la cassiera
in un supermercato, lui è operaio con un problema di alcolismo. Nello spazio
che il destino riserva per loro, riescono a piacersi, a perdere il numero di
telefono per cercarsi, entrambi vengono licenziati, con fatica trovano un altro
lavoro precario, si pensano e si trovano.
Sembra una fiaba melanconica, ma non lo è. Kaurismäki racconta la vita vera,
solo che lo fa utilizzando il verso breve accompagnato da un'ironia maestosa e gelida
come le notti dell'inverno finlandese.
Lo adoro per questo.
Ryūsuke Hamaguchi. "Il gioco del destino e della fantasia" l'ho visto su Mubi
in un pomeriggio rannicchiato delle feste. Non avevo dunque a disposizione la
visione sontuosa dello schermo grande e del buio sacro, però è stato come avere
uno scaldino nel freddo inverno. Anche Hamaguchi è bravo a ritmare versi brevi
e dalla sua ha la tradizione asciutta degli haiku. Il film è costruito su tre
episodi distinti e su quattro donne alla ricerca di qualcosa. Ogni storia racchiude
un mondo, un pezzo di città, la possibilità o il desiderio di un incontro, il
gioco delle coincidenze, l'approdo in un luogo (fisico, dell'animo o tutti e
due) prezioso.
In "Magia (o qualcosa di meno rassicurante)" Meiko ascolta la
sua migliore amica raccontare il magico incontro con un ragazzo; con lo
scorrere dei particolari, Meiko capisce che il ragazzo è il suo ex, lei lo ha
lasciato due anni prima. Il gioco del destino e delle coincidenze si mette in
moto, nulla è scontato, meno che mai gli azzardi del destino. La "Porta
spalancata" è quella dello studio di Segawa, un professore universitario; ha
appena vinto un prestigioso premio letterario con il suo romanzo. Per screditarlo,
uno studente bocciato si vendica con l'aiuto di una compagna che tenta di
sedurre il professore. La faccenda diventa disarmante per la tenacia con cui
Segawa tiene la porta dello studio aperta, e perché la seduzione diventa una
magnifica illuminazione. "Ancora una volta" è dei tre l'episodio che più di
tutti gioca con il destino. Natsuko va ad una rimpatriata tra compagni di
scuola che non si vedono da molti anni; sulla via del ritorno incrocia Nana e
in lei vede la compagna amata tanti anni prima. Le cose sono e non sono come
sembrano; c'è un gioco degli equivoci e c'è nel rimpianto del passato, la
scoperta dell'istante e dell'orizzonte.
Le donne e gli uomini di Hamaguchi sono soli, vibranti e tenaci. La ricchezza
dei particolari va cercata nelle immagini e nei gesti minimali. Proprio come
negli haiku.
Wim Wenders.
"Perfect Days" è certo uno dei film più belli che ho visto in questo
inverno. Non voglio paragonarlo a nessun altro film del regista. Un esercizio banale,
noioso, privo di senso.
La storia di Hirayama che vive e lavora a Tokyo come addetto alle pulizie nei
bagni pubblici della città, è la storia delle storie.
Le sue giornate sono scandite, sempre uguali, molto silenziose, raccolte in
gesti ripetuti, cadenzati, esperti. La vita di Hirayama è la straordinarietà
nelle cose minime, è la grandezza negli spazi piccoli, ordinari e ordinati, è l'istante
che tiene tutto dentro.
Guardare la cadenza dei giorni di Hirayama, la magnifica scoperta di ogni gesto
quotidiano, come fosse sempre nuovo, sempre pieno di imperscrutabile bellezza, è
tutto quello che conta.
Rimani lì, appeso allo schermo, incredulo, felice.
C'è un'estasi del guardare, non a caso Wim Wenders scrisse molti anni fa un
libro che rimane per me un pilastro dello sguardo: "L'atto di vedere" (The
Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 1992). Una lettura che in fatto di cinema,
capacità di accorgersi del mondo, di costruirlo, vederlo, capirlo con gli occhi,
non ha confronti; lo tengo prezioso tra i volumi che non vorrei perdere mai.
"Perfect Days" è così: un atto del vedere. Vedere cosa? La vita di un uomo, il
mondo in cui vive, l'essenzialità dei giorni, la luce del mattino e quella
della sera, il silenzio chiuso nella notte, i suoni minimi e impareggiabili
dell'alba, il frastuono del traffico, la musica che lo frena e annulla e gli dà
ritmo anche; vedere il sorriso di Hirayama rinascere ogni giorno, come un
bambino venuto al mondo che sbatte gli occhi, poi urla e poi si placa. Ogni
giorno, tutti i giorni e le notti.
C'è fatica nella vita di Hirayama, ci sono spazi stretti, persone insolenti, gesti
ingiusti; ma ci sono anche la fiducia nelle cose buone, la bellezza degli alberi
che vibrano al sole e al vento, il tintinnio della pioggia, le musicassette a
nastri magnetici con le canzoni più belle degli anni '70, i libri prima di addormentarsi,
il panino quotidiano, il lavaggio del corpo nel bagno pubblico, la scoperta di
una nipote sconosciuta che istintivamente lo ama.
Hirayama è l'atto di vedere fatto uomo, fatto carne, fatto spirito.
Le sequenze dei sogni notturni sono di Donata Wenders, grande fotografa, compagna
del regista.