“Malqueridas”, piccolo grande film passato alla Mostra

Non so se vedrà luce in Italia o altrove. Le sezioni ai
fianchi del concorso principale della Mostra del Cinema di Venezia contano
decine e decine di film che solo stando al Lido da signori in hotel o da
modesti accampati è possibile vedere tutti.
Ne ho inanellati solo alcuni (pochi) scegliendo a istinto. Questo per me spicca
in ordine di storia, emozione, intensità, découpage talentuoso.
"Malqueridas" della regista cilena Tana Gilbert. Il film era in concorso alla
Settimana Internazionale della Critica e ha vinto il massimo riconoscimento
della sezione, il Gran Premio IWonderfull, oltre al Premio Mario Serandrei -
Hotel Saturnia per il miglior contributo tecnico (dedicato a un grande
montatore del cinema italiano; per dare un'idea, Serandrei ha montato film di
Luchino Visconti come "Ossessione", "La terra trema", "Il Gattopardo", o come
"Salvatore Giuliano" di Francesco Rosi).
"Malqueridas" è un documentario senza sembrarlo, racconta una prigione femminile
cilena, attraverso le riprese clandestine fatte in carcere dalle detenute. Soprattutto,
ha un montaggio straordinario. La regista Tana Gilbert ha trent'anni e un
grande talento.
Sono tutte detenute a lungo termine, con pene decennali da scontare. Il carcere
in cui stanno dà l'impressione di un luogo aperto ma nel perimetro dei
movimenti tutto è asfittico, quasi tutto è vietato (ovviamente tenere telefoni
cellulari), controlli e punizioni sono improvvisi, violenti come una tempesta che
si abbatte e lascia disastri.
Le detenute sono ragazze, donne giovani, mature, anziane. Tra loro aleggia una
solidarietà corporea, animica, primordiale e dolce. Sono donne e molto molto
spesso sono madri.
Sulla maternità carcerata si sofferma lo sguardo della regista. Alcune di loro
sono finite dentro lasciando fuori bimbi e bimbe piccoli, altre sono incinte e
partoriscono lì, ammanettate, controllate, strappate a tutto. A ognuna di loro (senza
alternative fuori) è concesso di tenere i figli in carcere fino al compimento
dei due anni. Per loro c'è una sezione riservata dove, in camerate comuni ad
altre madri, dormono e vivono con i piccoli. Tutti rinchiusi, tutti a contenere
movimenti, risa, pianti, pasti, giochi.
Dopo due anni, sia come sia, i bambini escono. Se fuori nessuno può occuparsene
finiscono ai servizi sociali. Lo strappo è violento. La vita insieme (per
quanto asfittica ma calda e amorevole) finisce. Davanti a loro anni e anni di
reclusione, senza vedere i figli se non ogni tanto o mai più se fuori non c'è alternativa.
È incredibile come Tana Gilbert realizzi questo racconto visivo delicato,
violento, strozzato, opaco, lucidissimo, utilizzando il fiume di materiale
clandestino delle donne che, nascondendo telefoni, colgono ogni occasione per
riprendere i loro piccoli o se stesse con le altre detenute, la loro convivenza
alla ricerca di amorevolezza, protezione, sponda. Sono donne solidali,
ugualmente sole e disperate ma sorelle, capaci di grandi vuoti e di gioie
sincere e malinconiche. Qualsiasi cosa sia accaduta fuori, lì sono alberi e
fronde a sostegno le une delle altre.
Il montaggio minuzioso costruisce un percorso visivo, una narrazione scorrevole
e a tratti sincopata che rende conto dell'orizzonte sempre strozzato del luogo
e delle persone rinchiuse. La bravura della regista è tutta nella cucitura dei
frammenti, nel rendere ampi e pieni di respiro i racconti sminuzzati e
clandestini che, tutti insieme, restituiscono la realtà.
Guardando verrebbe da pensare ad una finzione. Ma non si
riesce a dimenticare la crudezza, la sporcizia delle immagini, il movimento
scomposto dei telefoni nascosti dentro il perimetro della reclusione. Le
riprese sono piccoli diari visivi da ripercorrere nella quiete del letto,
destinati a scomparire nelle tempeste dei controlli. Non fosse per questa
regista che ha portato lo sguardo chiuso, fuori dal carcere, steso sul mondo.
Sono immagini tanto pure da non generare alcuna compassione. Non la cercano,
sono crude e dignitose. E il montaggio, come dicevo magnifico, sostiene la
fierezza di queste donne rinchiuse, spezzate eppure intere, la debolezza delle
loro vite, l'inciampo in agguato ad ogni angolo. Senza alcun tentativo di
commuovere, il racconto è caldo, vero, inquieto, scomodo a tutti.
Basta guardare per fissare la realtà, tremendamente normale, dolorosamente
interrotta.