Le città di pianura. Il paesaggio sconfitto e quello sperato

Per vedere questo film ci vuole uno schermo grande. "Le città di
pianura" di Francesco Sossai bisogna vederlo grande. Anche perché mancava un
film tanto bello da anni. Un film italiano tanto bello.
L'ho gustato in una proiezione domenicale mattutina. Fuori c'era
tempesta, vento forte, pioggia e freddo. Rannicchiarsi dentro la poltrona della
sala e aprire gli occhi nel buio l'ha fatta sparire.
Ci sono personaggi, Carlobianchi, Doriano, Giulio e Genio. C'è il
paesaggio veneto attraversato da nord a sud e ritorno, alla ricerca di vita,
ricordi e spazio.
Il film è un road movie ma non basta, una storia di amicizia, crescita,
decrescita, nostalgia ma non basta. È soprattutto un film libero, senza
inibizioni né regole. Dal fondo trasudano il mestiere della scrittura e delle immagini,
una grande ispirazione nel fare cinema maneggiando tutte le regole di
composizione. Ma, appunto, Francesco Sossai quelle lezioni preziose le porta
su, le scardina perché le possiede, e se ne frega (per fortuna) di stare nella
coerenza cinematografica.
Con lui, a dare potenza allo schermo c'è un gruppo di attori perfetti
per sconnessioni e solidità: Sergio Romano (Carlobianchi), Pierpaolo Capovilla
(che non è attore ma cantante del gruppo Il Teatro degli Orrori, Doriano),
Filippo Scotti (Giulio), poi Andrea Pennacchi e Roberto Citran in due quasi
cameo folgoranti.
Il viaggio che Carlobiachi e Doriano (più che cinquantenni, amici da
sempre) iniziano a un semaforo rosso che diventa verde ma loro dormono
ubriachi, è una dichiarazione di sconfitta, ma è anche la ricerca scomposta,
via via sempre più lucida, della bellezza. Nel loro girovagare a bordo di una
berlina sfiorita, da una parte attendono di recuperare Genio (l'altro amico di
sempre, rintanato in Argentina per frode aggravata, di ritorno dopo la
prescrizione del reato) all'aeroporto di "Treviso-Venezia", dall'altra parte
incontrano Giulio nella notte brava di una festa di laurea, sugli scalini dello
IUAV, in faccia al Bacareto da Lele, Fondamenta dei Tolentini a Venezia. Giulio
studia architettura ed è innamorato della neolaureata, ma non è selvaggio, non
è temerario e non vuole esserlo.
Trascinato dal grado alcolico dei due nomadi, Giulio entra nel viaggio e
diventa un giovane Virgilio del paesaggio. Ama Carlo Scarpa e uno dei suoi più
grandi desideri è vedere la Tomba Brion, memoriale progettato da Scarpa per
l'omonima famiglia, adagiato silenzioso sui declivi di San Vito di Altivole,
profonda provincia trevigiana.
I tre cavalieri, più il quarto quasi sempre solo evocato (Genio),
procedono a tentoni etilizzati da birre, shottini, cocktail, memorie e sogni.
Carlobianchi e Doriano sono saggi vecchi, sfatti e disillusi eppure pieni di
speranza. Una speranza che versano addosso a Giulio costretto a crescere senza
diventare per forza grande.
Su di loro ondeggia il paesaggio tragico del Veneto, terra violentata da
progresso compulsivo e sordo a qualsiasi orizzonte; spazio zeppo di intralci
cementati (strade, capanni, quartieri, cantieri) senza scopo né direzione,
capaci di unire compulsivamente distanze senza sapere dove andare.
In questa magia capovolta, Giulio è lo sguardo lieve che polverizza con purezza
gli ingombri sulla terra. Con la sua saggezza acerba e incantata, evoca il
paesaggio ideale, quello affrescato sui palazzi, nel chiuso dei giardini
all'italiana, un paesaggio dove la laguna veneziana si unisce alle pendici
nevose in un bacio pittorico che azzera le fatiscenti città di pianura.
Sossai non racconta una storia ma un luogo. Non dipana un intreccio ma
un pensiero. Carlobianchi, Doriano, Giulio, Genio, sono esploratori che si
arrampicano, lanterna in mano, sguardo premuroso, cuore puro.
Possiamo solo seguirli, attenti al passo, alla luce a volte intensa
altre fioca che occhieggia dal lume e svela quello che siamo, quello che abbiamo
e non abbiamo fatto o visto o combattuto.
