“Indiana Jones e il quadrante del destino”

Indy è tornato per la quinta e ultima volta. Non sono molte
le saghe cinematografiche che mi appassionano, ma quella di "Indiana Jones" è tra
le mie preferite. L'altra, sempre con Harrison Ford, è "Star Wars" (soprattutto
i primi tre film, insuperabili).
In sala c'è il quinto e ultimo capitolo dedicato all'archeologo creato da
George Lucas, "Indiana Jones e il quadrante del destino". Come gli altri film della
saga, è un tuffo nella purezza dell'avventura, nella vita e nel carattere del
prof. Jones, in giro per il mondo alla ricerca di reperti, civiltà, sogni e
che, nell'immaginario di Lucas, dal primo film vive le sue peripezie a partire
dai fascinosi e complicati anni '30.
Il cinema ha mille e mille volti, impossibile ridurlo a coordinate precise,
anche se per molti decenni del Novecento c'è stata molta insistenza sulla forma
del cinema, sulle sue regole, la grammatica, il linguaggio, per capire con il
tempo che tutte queste cose (vere, essenziali, incisive) potevano e possono
essere sovvertite in ogni modo, declinate in sfumature quasi infinite. In mezzo
alla varietà di generi, stili e ritmi, e soprattutto nell'animo dello
spettatore cinematografico, c'è un perno fortissimo, un motore potente che
induce alla visione: la catarsi.
Il fascino e la necessità di immersione in mondi magnifici, anche terribili, ma
comunque avvolgenti, alienanti rispetto alla realtà, capaci di superarla e
accarezzarla a lungo dopo la visione, sono l'elemento centrale di tantissimo
cinema. Può essere, a seconda dei gusti, un bagno lento e ristoratore (fatto di
storie, sentimenti, empatia, dolore) oppure una sferzata che avvolge, accelera
il battito, toglie il fiato e mette nel cuore allegrezza e dinamo.
Indy incarna la catarsi ad un tempo travolgente e palpitante, imprevedibile ed
empatica. Con un elemento in più: un costante riferimento alla storia antica,
al mito, alle origini delle civiltà del mondo.
Quindi con animo fibrillante sono andata a vedere il quinto capitolo della
saga, diretto da James Mangold, l'unico senza la regia di Steven Spielberg. Lui
e George Lucas sono comunque i produttori esecutivi. Questo mi ha rincuorato.
E il film mi è piaciuto tanto.
Ha assolto la sua funzione primaria: stringere a sé. Facendo parte di una saga,
ha saputo raccontare nuove avventure, senza dimenticare le precedenti e dunque
tenendo lo spettatore saldamente e dolcemente legato all'eroe e alle vicende passate.
Dato che sono trascorsi molti anni dal quarto Indiana Jones (2008, e a ritroso:
1989, 1984, 1981), è riuscito a disegnare un eroe in sintonia con il tempo
trascorso, invecchiato, piazzato anagraficamente a circa 30 anni di distanza
dal giovane archeologo: Indy è un signore sull'ottantina, nel 1969, quando l'America
festeggia il successo della missione Apollo 11 sulla Luna e celebra il rientro
degli astronauti.
C'è, in tutto questo, un elemento di grande fascino che tende la storia ed è la
giusta trama per l'ordito: il tempo. Il prof. Jones viaggia nel tempo, da una
parte attraverso l'uso del flashback o dell'antefatto che dà fondamento agli
eventi attuali; dall'altra con un vero, magnifico scarto temporale che dà senso
e appagamento alla ricerca di Indy durata tutta la vita.
Indiana Jones questa volta se la vede con la spericolata Helena (Phoebe
Waller-Bridge, brava, espressiva e di una imperfetta magnifica bellezza: per
chi è seriale è la protagonista delle due stagioni di "Fleabag"), figlia del
caro e perduto amico Basil Shaw e figlioccia di Indy. È decisamente figlia di
suo padre (e del suo padrino): laureata in archeologia, avventata e
avventurosa, curiosa all'inverosimile, ferratissima nelle lingue antiche. Ha un
solo difetto: i reperti li cerca per rivenderli.
Questo a Jones non va decisamente giù, perciò la insegue e raggiunge tra Stati
Uniti, Marocco, Sicilia ed Egitto, per ritrovare le due parti che compongono il
Meccanismo di Antikytera (il Quadrante del destino), la cui invenzione nel film
è attribuita ad Archimede di Siracusa (vissuto nel III secolo a.C.).
La Macchina di Anticitera esiste e prende il nome dall'isola del Peloponneso nei cui fondali è stata ritrovata nel 1900; è datata I secolo a.C. ed è un meccanismo antichissimo costruito per calcolare le rotazioni della luna rispetto al sole e per computare una sorta di calendario.
Nel flusso dell'avventura cinematografica, il Quadrante ricomposto nelle due parti è in grado di individuare varchi temporali dentro cui viaggiare. Una possibilità sospesa tra mito e realtà a cui vuole arrivare l'antagonista di Indy, il nazista Jürgen Voller, antieroe visionario all'inseguimento di Jones. I due si erano già scontrati in piena caduta del Reich e ora, nel 1969, si contrappongono e rincorrono nella lotta tra ragione e follia.
Quello che accade nel mezzo, e soprattutto quello che accade alla fine, è da
gustare in sala.
Qualche nota di conforto per chi avesse nostalgia: Harrison Ford è uno
splendido ottantenne che ancora si arrampica, sgrana gli occhi come negli anni
'80, ha il terrore dei serpenti, sguaina la frusta, non perde mai il suo
Borsalino; nel più puro sentimentalismo, ritroviamo (anche se brevemente) il
fedele compagno e amico egiziano Sallah (John Rhys-Davies) e l'amata Marion
(Karen Allen), compagna di avventure (nel primo "I predatori dell'arca
perduta") e poi moglie di Indy (quarto capitolo "Indiana Jones e il regno del
teschio di cristallo"). Per le riprese del film la troupe si è davvero spostata
tra diverse nazioni e continenti e, per quanto ormai nessun film o quasi possa
prescindere dagli effetti digitali, per questo Indiana Jones c'è stato un largo
uso di riprese dal vero, evitando più possibile gli allestimenti virtuali.
Sullo schermo grande e avvolgente della sala, immersa nelle immagini e senza il peso della realtà, c'è la catarsi, cadenzata dal volo di ooohhhh degli spettatori ad ogni spericolato passaggio e ad ogni levarsi dell'indimenticabile e storica colonna sonora di John Williams.
Sul film "Indiana Jones e il quadrante del destino" di James Mangold
pubblicato su remweb.it l'11 luglio 2023