Il potere di Jane

Uscita dalla sala ho continuato ad avere negli occhi la luce
del film. E mi sono detta subito che c'è un motivo preciso se Jane Campion con
"Il potere del cane" ha vinto il Leone d'Argento per la migliore regia a
Venezia pochi mesi fa. Il motivo è la sua impagabile capacità di inquadrare lo
spazio, di frugarci dentro con un silenzio religioso, anche quando una scena è
colma di suoni.
Basterebbe l'inquadratura iniziale e il movimento di
macchina che da destra si sposta verso sinistra dentro la casa, e nell'incrocio
delle finestre alte e squadrate ti arriva addosso una luce netta, limpida,
profonda. Lì fuori c'è un mondo che stai per scoprire, ancora non sai fino a
che punto.
È un western "Il potere del cane", nel senso che la storia
sta tutta intera dentro quello scenario fatto di deserto polveroso e
montagnoso, popolato di mandrie e cowboy in senso letterale: guardiani di
vacche. Un mondo maschile, ruvido, grezzo, violento come la natura di quei
posti. Però un mondo dal quale amore e odio salgono su come i promontori del
Montana.
È un mondo carnale, colmo di desideri, sensi, paure e gioie
estreme.
Questi uomini zuppi di polvere, sangue, sterco, lei, Jane
Campion, li porta sullo schermo come una specie di poesia violenta. E i
sentimenti tra uomo e uomo, uomo e donna, persone e natura, stanno lì nella
luce della sua macchina da presa.