Dalla quotidiana follia in Israele al narcotraffico in Colombia, le storie al festival di Venezia

22.01.2023

Ancora conflitto con "Ha Ben Dod".
Torna come una specie di mantra il tema della convivenza, della diversità, della paura e della schizofrenia che provoca.
"Ha Ben Dod" (The Cousin) del regista israeliano Tzahi Grad è in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti. Racconta una storia di quotidiana follia, così quotidiana che ci appare perfettamente inserita tra gli impegni di una giornata, il lavoro, lo svago.
Naftali - interpretato dallo stesso Tzahi Grad - vive in un piccolo paese in Israele, una comunità integrata e stretta su se stessa. Tutti si conoscono, condividono attività, spazi, problemi. È un uomo abituato ad ascoltare tutti, è paziente, disponibile, amorevole. Ha una moglie e due figli che sono la sua gioia. Deve ristrutturare una casetta nel suo giardino, un piccolo edificio che usa come studio. Gli raccomandano un carpentiere arabo musulmano, che però ha un imprevisto e manda un parente, Fahed. Naftali ha una leggera diffidenza iniziale, non per il fatto che è arabo, solo perché non è la persona che gli è stata consigliata. Bastano pochi attimi e Naftali ripone la sua fiducia in Fahed. Nella sua naturale propensione ad accogliere tutto, è sereno.
In una scena molto intensa in cui tutti si rallegrano, Fahed spiega ai figli di Naftali come ebrei e musulmani discendano da Abramo: dei suoi figli, Ismaele è considerato padre degli arabi, Isacco padre degli ebrei. Dunque, dice Fahed, siamo cugini. Ma conta poco, tutto cambia quando una ragazza viene aggredita da uno sconosciuto nel magazzino di materiali edili dove Naftali va a rifornirsi. Gli sguardi si puntano su Fahed, è andato da solo al magazzino, può essere stato solo lui. È così per l'intera comunità, non per Naftali. A questo punto il film prende la forma del conflitto, della diffidenza, del rifiuto e lo fa con intelligenza e ironia. Alla furia crescente della comunità intera si contrappone lo sbigottimento di Naftali che non capisce, non riesce proprio a schierarsi con i suoi concittadini, i vicini di casa, perfino la moglie. Tutti hanno già giudicato e condannato Fahed, anche se la ragazza in questione - strumento invisibile dell'intera situazione - non lo ha né visto né identificato. Più il delirio monta, più Naftali è messo a dura prova. E li ha i dubbi, certo che li ha. Perché nello spavento che lo avvolge, Fahed è incongruente, fa cose strane e naturalmente scappa. Ma sono brevi momenti, perché l'animo aperto di Naftali prevale e vede la follia, il paradosso di una situazione costruita sul nulla. Allora diventa cattivo, afferra una pistola e spara colpi in aria. Poi prende un megafono e comincia a dare ordini e a fare ordine, non solo nel suo giardino preso d'assalto, ma nella mente di tutti. È come se all'improvviso assestasse una serie di schiaffi potenti, arrossando e scaldando guance e cuori. Bellissimo.

L'icona Escobar di "Loving Pablo".
Qualche parola su "Loving Pablo" di Fernando León de Aranoa, presentato a Venezia fuori concorso. Il film si basa sul romanzo di Virginia Vallejo Loving Pablo, Hating Escobar. Pablo Escobar Gaviria è stato nel bene e nel male una vera icona. Re indiscusso della cocaina tra gli anni '70 e '90, ha creato in Colombia il famoso Cartello di Medellín, attraverso il quale controllava il traffico di droga verso gli Stati Uniti e diversi stati del centro e sud America. Era amatissimo dalla popolazione colombiana ai margini, per donne uomini e bambini era un benefattore e infatti, arrivato dal nulla, Pablo dispensava molta della sua ricchezza a chi era nulla. La sua è una storia di ascesa, ricchezza, terrore, orrore, caduta. Nel film di Araona il punto di vista è quello di Virginia Vallejo, famosa giornalista televisiva, confidente e amante di Pablo. Soprattutto, come ha detto lo stesso regista, Virginia è una sopravvissuta. Quando Escobar ha iniziato la sua discesa, ha trascinato con sé ogni cosa. Si è scatenato un inferno fatto di terrore e omicidi senza precedenti e la Vallejo è precipitata in caduta libera. Licenziata, tenuta a distanza da tutti, minacciata continuamente di morte, è stata infine portata via dai servizi segreti americani, dopo aver contribuito alla cattura di Escobar. "Loving Pablo" ha il pregio di mostrare molti aspetti privati e le mille contraddizioni di un uomo terribile e carismatico che uccideva freddamente e amava teneramente. Bravissimi Penélope Cruz e Javier Bardem che mettono in scena i due protagonisti con intensità e una certa ironia. Il film è recitato in lingua inglese, utilizzando di proposito un continuo intercalare in spagnolo. La scelta dell'inglese sembrerebbe dettata da questioni distributive. Tutti gli attori che interpretano ruoli colombiani sono con evidenza madre lingua spagnola, ma il tocco decisivo è proprio la mescolanza delle due lingue, come se questa fosse una figura precisa del film.

Esplorando i film in mostra a Venezia 74
pubblicato su remweb.it il 9 settembre 2017