Dalla quotidiana follia in Israele al narcotraffico in Colombia, le storie al festival di Venezia

Ancora conflitto con "Ha Ben Dod".
Torna come una specie di mantra il tema della convivenza,
della diversità, della paura e della schizofrenia che provoca.
"Ha Ben Dod" (The Cousin) del regista israeliano Tzahi Grad
è in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti. Racconta una storia di
quotidiana follia, così quotidiana che ci appare perfettamente inserita tra gli
impegni di una giornata, il lavoro, lo svago.
Naftali - interpretato dallo stesso Tzahi Grad - vive in un
piccolo paese in Israele, una comunità integrata e stretta su se stessa. Tutti
si conoscono, condividono attività, spazi, problemi. È un uomo abituato ad
ascoltare tutti, è paziente, disponibile, amorevole. Ha una moglie e due figli
che sono la sua gioia. Deve ristrutturare una casetta nel suo giardino, un
piccolo edificio che usa come studio. Gli raccomandano un carpentiere arabo
musulmano, che però ha un imprevisto e manda un parente, Fahed. Naftali ha una
leggera diffidenza iniziale, non per il fatto che è arabo, solo perché non è la
persona che gli è stata consigliata. Bastano pochi attimi e Naftali ripone la
sua fiducia in Fahed. Nella sua naturale propensione ad accogliere tutto, è
sereno.
In una scena molto intensa in cui tutti si rallegrano, Fahed
spiega ai figli di Naftali come ebrei e musulmani discendano da Abramo: dei
suoi figli, Ismaele è considerato padre degli arabi, Isacco padre degli ebrei.
Dunque, dice Fahed, siamo cugini. Ma conta poco, tutto cambia quando una ragazza viene
aggredita da uno sconosciuto nel magazzino di materiali edili dove Naftali va a
rifornirsi. Gli sguardi si puntano su Fahed, è andato da solo al magazzino, può
essere stato solo lui. È così per l'intera comunità, non per Naftali. A questo
punto il film prende la forma del conflitto, della diffidenza, del rifiuto e lo
fa con intelligenza e ironia. Alla furia crescente della comunità intera si contrappone lo
sbigottimento di Naftali che non capisce, non riesce proprio a schierarsi con i
suoi concittadini, i vicini di casa, perfino la moglie. Tutti hanno già
giudicato e condannato Fahed, anche se la ragazza in questione - strumento
invisibile dell'intera situazione - non lo ha né visto né identificato. Più il delirio monta, più Naftali è messo a dura prova. E li
ha i dubbi, certo che li ha. Perché nello spavento che lo avvolge, Fahed è
incongruente, fa cose strane e naturalmente scappa. Ma sono brevi momenti,
perché l'animo aperto di Naftali prevale e vede la follia, il paradosso di una
situazione costruita sul nulla. Allora diventa cattivo, afferra una pistola e
spara colpi in aria. Poi prende un megafono e comincia a dare ordini e a fare
ordine, non solo nel suo giardino preso d'assalto, ma nella mente di tutti. È
come se all'improvviso assestasse una serie di schiaffi potenti, arrossando e
scaldando guance e cuori. Bellissimo.

L'icona Escobar di "Loving Pablo".
Qualche parola su "Loving Pablo" di Fernando León de Aranoa,
presentato a Venezia fuori concorso. Il film si basa sul romanzo di Virginia
Vallejo Loving Pablo, Hating Escobar. Pablo Escobar Gaviria è stato nel bene e nel male una vera
icona. Re indiscusso della cocaina tra gli anni '70 e '90, ha creato in
Colombia il famoso Cartello di Medellín, attraverso il quale controllava il
traffico di droga verso gli Stati Uniti e diversi stati del centro e sud
America. Era amatissimo dalla popolazione colombiana ai margini, per donne
uomini e bambini era un benefattore e infatti, arrivato dal nulla, Pablo
dispensava molta della sua ricchezza a chi era nulla. La sua è una storia di ascesa, ricchezza, terrore, orrore,
caduta. Nel film di Araona il punto di vista è quello di Virginia Vallejo,
famosa giornalista televisiva, confidente e amante di Pablo. Soprattutto, come
ha detto lo stesso regista, Virginia è una sopravvissuta. Quando Escobar ha
iniziato la sua discesa, ha trascinato con sé ogni cosa. Si è scatenato un
inferno fatto di terrore e omicidi senza precedenti e la Vallejo è precipitata
in caduta libera. Licenziata, tenuta a distanza da tutti, minacciata
continuamente di morte, è stata infine portata via dai servizi segreti
americani, dopo aver contribuito alla cattura di Escobar. "Loving Pablo" ha il pregio di mostrare molti aspetti
privati e le mille contraddizioni di un uomo terribile e carismatico che
uccideva freddamente e amava teneramente. Bravissimi Penélope Cruz e Javier
Bardem che mettono in scena i due protagonisti con intensità e una certa
ironia. Il film è recitato in lingua inglese, utilizzando di proposito un
continuo intercalare in spagnolo. La scelta dell'inglese sembrerebbe dettata da
questioni distributive. Tutti gli attori che interpretano ruoli colombiani sono
con evidenza madre lingua spagnola, ma il tocco decisivo è proprio la
mescolanza delle due lingue, come se questa fosse una figura precisa del film.
Esplorando i film in mostra a Venezia 74
pubblicato su remweb.it il 9 settembre 2017