Altre visioni. Scrivere

Da settimane non riesco a scrivere, forse mesi. È sempre
stato il modo per dire, per stendere fuori alla luce quel che si muove dentro.
A volte il semplice guardare i colori lungo un paesaggio, osservare due
sconosciuti che parlano, ridono, litigano mentre intorno il mondo continua la
sua espansione. Più spesso un libro o un film, i due oggetti del piacere
sublime, insieme a pochi altri.
Andare al cinema, come l'altro giorno, vedere un film che mi agita dentro, avvolge
fuori, insomma, mi anima, muove neuroni, sensi, tutto il corpo, uscire dalla
sala e sentire di voler mettere sulla carta o sullo schermo tutta quella
agitazione ricca, calda, magari confusa ma piena. In genere la molla scatta
immediata, torno a casa e butto giù, poi sistemerò, ma intanto stendo sulla
pagina.
Il film era "Anatomia di una caduta" di Justine Triet, e ci ho provato, sì, il
giorno stesso, ho aperto un file e ho scritto cinque righe. Poi il vuoto. Non
di quello che pensavo, sentivo, mormoravo tra me e me, ma il vuoto delle parole
da mettere giù, dargli un senso o almeno un ordine. Niente. Cinque righe e
fine. Eppure il film è magnifico, un thriller scritto fin dalla sceneggiatura
benissimo, girato in modo originalissimo e tecnicamente sorprendente, recitato
come una storia così merita. Detto questo, però, le parole non mi escono oltre.
Stessa cosa con i libri. Ho letto pagine che mi hanno avvolto nella bellezza,
altre che mi hanno confuso, un po' irritato, altre le assaporo lentamente e
negli interstizi dei piccoli bocconi ho pensieri, e tutti insieme questi
pensieri vorrei metterli sul foglio ma il grumo di parole rimane incastrato ai
margini, bloccato nello stipite della porta. È così per "Vita immaginaria" di
Natalia Ginzburg, così per almeno un paio di libri di Ernesto Ferrero che ieri
se n'è andato e ho il cuore addolorato perché nel panorama della scrittura (di
tutto il processo della scrittura) è stato e rimane una figura preziosa. Non
riesco a scrivere di un libretto di Leonardo Sciascia, "Questo non è un
racconto", dell'ultimo libro di Guido Conti "La siccità", di "Qualcosa, là fuori"
di Bruno Arpaia, letto ormai da tempo e gustato molto, perché ha mosso
tasselli, premuto tasti, connesso pensieri. Ho fibrillanti parole, tutte
compresse, per "La verità e la biro" di Tiziano Scarpa, che sto leggendo, mi dà
una gioia immensa e mi riconcilia con tanta scrittura urlata ovunque.
Ecco, mi sono detta, sto lì ferma, bloccata in un limbo tutto mio, un limbo che
non vede nessuno e neppure importa a chicchessia. Eppure, mi sono detta, provo
a partire da qui. Perché il punto non è che non ho voglia di scrivere, ce l'ho;
il punto è che le parole stanno ingolfate e non ne vengo a capo.
Questo sproloquio serve solo a me, lo capisco bene. Sono le uniche parole che
mi escono dalla testa e dal corpo intero. Le stendo. Provo a farne un bullone,
un chiavistello, un argano che allarghi lo stipite della porta. Magari non
serve a niente. In questo caso sarà uguale, non cambierà nulla, pazienza.
Perché scrivo non lo so. L'ho sempre fatto senza orizzonte, senza regole. Il
primo ricordo è il banco di scuola alle elementari. Quando la maestra, Romana
di nome pisana di origine, il lunedì mattina assegnava il tema, dettava il
titolo e noi compitavamo in cima alla pagina del quaderno: "Racconta cosa hai
fatto domenica con la tua famiglia", oppure: "Descrivi cosa ti piace fare nel
tempo libero". Una noia mortale. Stavo lì qualche minuto a guardare l'inchiostro
blu sul foglio bianco e non avevo niente da dire. Usavo una stilografica con le
cartuccine Pelikan e il piccolo callo sul dito medio destro lo avevo sempre blu
e un po' sbucciato. Allora mi alzavo, andavo alla cattedra, mi avvicinavo all'orecchio
di Romana e sussurravo: "Posso scrivere poesie?". Mi diceva sempre sì. Negli
anni mi ha detto tanti altri sì, l'ho amata tanto per questo, al punto da non
dimenticarla mai.
Tornavo al banco e buttavo giù frasi incolonnate e ritmate. Le chiamavo poesie solo
per la forma che avevano sulla pagina, ma certo non lo erano. Erano solo la
versione libera del tema o di altri pensieri che condensavano il mio stare al
mondo.
Adesso che le parole non riesco a tirarle fuori come e quando vorrei, sento un
vuoto e una nostalgia imprecisa. Non so se a descrivere questa confusione faccio
ordine nel caos. Ma è l'unica cosa che riesco a mettere in parole. Un elenco di
libri, un ricordo nebbioso, l'immagine del callo blu un po' sbucciato, sparito
da tempo perché ormai sono i polpastrelli a battere sui tasti e lì i calli non
si formano e neppure si macchiano di blu.
La stilografica l'ho nel cuore: quella leggera di bambina, quella che mi regalò
papà anni dopo, e la sua, che usava quando scriveva le note per i clienti
che difendeva in tribunale e la segretaria batteva a macchina, in più copie
con la carta carbone e le veline. L'ha usata per tutta la sua carriera; poi me l'ha
data: è nera tondeggiante, con un orlo dorato e il pennino d'oro, si carica con la boccetta e uno stantuffino. Nel tempo l'ho visto usare anche penne più
comode e moderne, ma la stilo era sempre sulla scrivania, c'era un tampone con
la carta assorbente, e anche papà aveva il piccolo callo blu sul dito medio
destro.