Almodóvar, Larraín, Delpero. E tanti altri alla Mostra del Cinema

05.09.2024

Di Pedro Almodóvar alla Mostra del Cinema penso il meglio. "The Room Next Door" è un film pieno di quel suo modo di mostrare e raccontare, pieno di nitidezza, trasparenza, linee sottili, anche mentre entra in territori incerti, dentro visioni diverse, nei pensieri ostinati. Le due attrici che danno vita alla storia de "La stanza accanto" sono Tilda Swinton e Julianne Moore; non c'è scelta più felice e le due insieme sono complementari e sintoniche, anche e soprattutto nei dolci contrasti che le animano. Il fine vita, non quello naturale per limiti d'età, ma quello pensato, desiderato, ponderato per andarsene al meglio di fronte alla malattia orrenda e debilitante, questo modo di scegliere la propria morte è il centro della storia. Una storia calata in terra americana, dentro una cultura liberale che però insiste nel preservare la vita a tutti costi. Ingrid e Martha sono due scrittrici, una di romanzi l'altra come reporter di guerra, sono amiche di vecchia data, perse di vista da molto. La malattia di Martha le riavvicina e il film ci porta dentro le scelte consapevoli, lo smarrimento di chi è accanto impotente, l'amorevolezza verso le decisioni prese, il tempo breve e intenso che rimane, tempo da condividere e da assaporare in solitudine, sapendo che lì, nella stanza accanto (o sopra o sotto, non importa) un'amica attende che ogni pace sia compiuta.
La scelta di Martha diventa la riflessione di Ingrid. Almodóvar è il direttore d'orchestra, il mastro artigiano, l'autore che tratteggia per immagini e parole il difficile compito di determinarsi da sé.
Come sempre, spiccano e reggono la scena le meravigliose scenografie di Almodóvar, gli arredi, gli abiti, le suppellettili, il contrasto dei colori primari dentro i quali si insinuano tratteggi pastello, pallori e toni forti a stridere, come i personaggi, come la gioia e la paura, come l'attesa e la fretta, come una porta aperta e poi chiusa.
Spero ci sia un premio per questo film, uno dei Leoni ad Almodóvar, o le Coppe Volpi alle attrici che vedrei bene in un ex equo per Swinton e Moore.

C'è Pablo Larraín con "Maria". Un altro biopic per il regista cileno che ama le donne intense, contrastate, complesse. Donne che hanno lasciato segni nella storia, che hanno tracciato culture, percorsi, visioni sociali. Dopo "Jackie" e "Spencer", Larraín tratteggia Maria Callas. Lo fa rintracciando nella vita della più grande soprano di ogni tempo un frammento di giorni, l'ultima settimana di vita. Da questo micro tempo si schiude l'esistenza di una signora del canto fortissima e fragilissima. Un modo di osservare, più che l'esistenza, la personalità della Callas, punto di vista che era stato il grimaldello anche dei film dedicati a Jacqueline Kennedy e Diana Spencer: la scelta di cogliere un attimo e dilatarlo, scelta affatto semplice ma sempre riuscita a Larraín. Angelina Jolie sorprende, entra nella parte con intensità e misura; la sua figura ricalca quella di Maria senza cercare a tutti i costi la somiglianza. Il film non è perfetto, ma vive di una cura minuziosa per i dettagli, tanto da restituire un 1977 saturo di decadenza, stile, bellezza che scivola via e tuttavia rimane.

"Vermiglio" di Maura Delpero. Un film che mi ha sorpreso per la semplicità e l'intensità. Sembra piccolo messo accanto a film, registi e attori altisonanti (ce ne sono da citare un bel po'), eppure per me spicca come un diamantino che fa capolino dalla roccia e il sole all'improvviso illumina.
Vermiglio è un paesino in alta montagna, in Val di Sole. Lì abita una piccola comunità, tutta stretta e isolata, sul finire della Seconda guerra mondiale. Lassù arrivano solo echi: la guerra in senso stretto non c'è, ma c'è un soldato che si è rifugiato a Vermiglio. La sua presenza sconvolge il ritmo del tempo e delle stagioni, soprattutto sconvolge la famiglia Graziadei. Il turbine arriva ma la macchina da presa di Maura Delpero riesce a raccontarlo con ritmo lieve e costante. Trovo la sua narrazione una boccata d'ossigeno, il suo cinema una macchina dai meccanismi spontanei, fluidi. I personaggi sono semplici nella loro ruvidezza e complessità. Sono osservati e seguiti senza ansia o insistenze inutili. Gli ambienti sono veri, naturali, profumano di neve, di alpeggio, di lino nei cassettoni; l'aria vibra nella lingua della valle, messa in bocca agli attori (quasi tutti nudi e crudi di recitazione, e va bene così) con parole dense come il latte, parole arcaiche, spicce e profonde; e vibra nei canti rimbalzati tra le rocce. Questa fascinazione per l'altura, che certo mi ha presa, non deve però distrarre: la storia si regge su una scrittura ben fatta e su una cura amorevole per le immagini. Un film che mi ha dato gioia, quando esce in sala è da vedere, senz'altro.

Alcuni film mi hanno complicato i pensieri, forse perché avevo qualche aspettativa, forse perché trovo che raccontino storie belle perdendosi da qualche parte.
"Queer" di Luca Guadagnino, con uno straordinario Daniel Craig (da premio). Il film è tratto dall'omonimo romanzo breve di William S. Burroughs (scritto tra il 1951 e il 1953, uscito solo nel 1985) e ci immerge nell'atmosfera di Città del Messico e del Sudamerica degli anni Cinquanta. William è un americano espatriato, sulla cinquantina e sfatto. È una checca (queer), un'anima stanca alla ricerca d'amore. Incontra il giovane bellissimo Eugene e si innamora, ricambiato, forse, o forse no. In ogni caso la loro storia è fragile, tagliente, appassionata, fatta di dipendenze: da stupefacenti e da un rapporto tra dominatore e dominato. La cosa bella del film è la tenerezza infinita dei personaggi, insieme al loro precipitare. La cosa che non mi piace è il modo del regista di portare all'estremo la narrazione: c'è molta ridondanza, che certo è funzionale al legame tra William e Eugene, ma che trovo eccessiva e inutile; c'è uno scarto, tra la prima parte a Mexico City e la seconda in viaggio, un varco che scolla la storia e che si riempie di troppe cose messe a tutti i costi sullo schermo.
"Joker: Folie à deux" di Todd Phillips, atteso sequel di "Joker", con Joaquin Phoenix e Lady Gaga. Mi ha deluso semplicemente perché non riesco a capire dove porta. Nel mastodontico sforzo di raccontare agli appassionati di comics com'è che Joker è diventato Joker, questo secondo film non aggiunge nulla a quanto il primo aveva già detto, per me era più che sufficiente. Phoenix è come sempre bravo, fisico e catartico; Lady Gaga splende per la sua voce e il film, però, è un po' troppo musical.
"Babygirl" di Halina Reijn, con Nicole Kidman, Harris Dickinson (era in "Triangle of Sadness" di Ruben Östlund, film pazzo e bello) e Antonio Banderas. La storia è interessante: esplorare il mondo delle fantasie più intime. La regista parte dall'idea che ognuno di noi ha un mondo segreto, spesso inespresso, messo a tacere da regole e tabù sociali. Raccontare una donna che decide di viverlo, di dargli forma, poteva essere una bella storia. Solo che tutto si perde in una ossessione e nel ricomponimento dei personaggi senza lasciare traccia.

Per il resto (del poco che ho visto), "Trois amies" di Emmanuel Mouret, spiace dirlo ma a me pare quel movimento tra personaggi tanto amato dal cinema francese, dove ci sono alcuni lui, alcune lei, intrecci, scambi, inganni, e dove infine tutto si assesta perché così è la vita.
"Harvest" di Athina Rachel Tsangari, con il magnetico Caleb Landry Jones (l'anno scorso era a Venezia con "Dogman", bellissimo), prometteva una storia un po' ancestrale immersa in un tempo lontano indefinito e in una terra cruda che ricorda le Highlands scozzesi. Mi sono persa tra danze e riti, in una dimensione performativa che non ho capito e che non ho retto per 133 minuti.
"Diva Futura" di Giulia Louise Steigerwalt sono andata a vederlo perché mi interessava la storia di Riccardo Schicchi, fondatore dell'Agenzia Diva Futura che negli anni Ottanta e Novanta ha creato e lanciato dive come Ilona Staller, Eva Henger e, soprattutto, Moana Pozzi. Mi interessava vedere quello spicchio di mondo e di tempo nel quale l'erotismo pornografico di queste stelle filanti era diventato uno status, un modo di vivere il corpo e aveva una sua magnificenza. Prima di internet, prima dei social, prima dello sdoganamento che a me non piace del mostro tutto ovunque, e non mi piace, non per moralismo, ma perché nel livellamento della rete non c'è e non ci può essere alcuna Moana o Eva o Ilona. Non c'è e non ci può essere carisma. Solo che il film pretende troppo. Pretende che Pietro Castellitto sia credibile e che lo siano i corpi, per carità belli, di chi prova a incarnare quelle stelle filanti ma non ci riesce.

In apertura di Mostra mi ha rallegrato giocosamente il "Beetlejuice Beetlejuice" di Tim Burton, fuori concorso, pieno di bellissimi mostri.